
La Sicilia non è uno scenario: è voce, pelle, carne. E per L’Elfo, classe 1990, nato e cresciuto a Catania, è il punto di partenza e di ritorno di ogni rima. Il 21 maggio è uscito “Sangue Siciliano” (Shut Up Records), il suo nuovo disco, e non è semplicemente un album: è un testamento identitario. La lingua siciliana non è folklore, è una scelta politica. L’appartenenza, la sopravvivenza e il dolore diventano versi, beat, coraggio.
Dalle ferite fisiche (come l’ischemia cerebrale che ha segnato profondamente la sua vita) a quelle emotive, L’Elfo ha sempre trasformato la fragilità in arte, mescolando il rap tecnico delle battle all’urgenza del racconto personale. Con una sola collaborazione, quella con Don Pero, e 14 tracce che suonano come confessioni e grida collettive, “Sangue Siciliano” è un manifesto di resistenza, territorio e verità.
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“Sangue Siciliano” non è solo un titolo, è una dichiarazione. Oggi che l’identità sembra spesso diventare marketing, quanto costa – davvero – restare fedeli alle proprie radici, anche quando è più semplice andare via?
Mi è costato veramente tanto avere questa testa dura che ho anche oggi, ma non rinnego nessuna delle mie scelte. Sono convinto che, senza i miei valori, la mia visione e ciò che mi rappresenta, non sarei né l’artista né la persona che sono diventato.
Usi il siciliano non come decorazione, ma come lingua principale. Che cosa riesce a dire quella lingua che l’italiano non riesce nemmeno a sfiorare? E in che modo il dialetto, nella tua musica, diventa un atto culturale oltre che personale?
Il dialetto, rispetto alla lingua italiana, reputo che sia la mia prima lingua, proprio perché io sono siciliano. Ci sono concetti, pensieri e forme di espressione che puoi rendere al meglio soltanto con la tua lingua, in questo caso con il mio dialetto. Diventa un fatto culturale dal momento stesso in cui io registro, dal momento stesso in cui faccio un disco tutto interamente in dialetto siciliano, perché è una roba che rimarrà per gli anni. E già questo fa capire l’importanza di questa lingua, di questo dialetto.
In un passaggio del disco sembra emergere una domanda scomoda: “quanto resta di noi dopo il dolore?” Dopo l’ischemia, le perdite, le ombre, qual è la parte di te che ha resistito e si è trasformata in musica?
Io mi reputo molto un canalizzatore di emozioni e di esperienze, nel senso che tutto quello che mi succede poi, in qualche modo, riesco a farlo diventare musica. A volte, chiaramente, non è facile, perché sono umano anche io, quindi magari ci sono dei momenti o dei periodi in cui non riesco nemmeno a comunicare… ma perché non voglio. Però ecco, diciamo che anche dalle cose più orribili, chiunque può risalirne e farne tesoro, come me in questo caso.
C’è solo una collaborazione nel disco, quella con Don Pero. In un’epoca in cui i featuring si usano come leva commerciale, tu hai scelto la coerenza dell’amicizia. Cosa deve avere oggi un artista per guadagnarsi il tuo microfono accanto?
Non mi piace molto il finto rapporto umano che viene a crearsi. Dal momento in cui non fai le stesse visualizzazioni e gli stessi numeri di un altro tuo collega, quel collega non ti darà mai la giusta considerazione, nonostante tu magari abbia il talento e la bravura perfetta per fare una collaborazione. Ma è un mondo strano.
Nonostante questo, però, ci sono state anche persone che hanno collaborato con me in questi anni, e sono cose che non dimentico mai. Infatti, ringrazierò sempre gente come MadMan, Vacca, Inoki e tanti altri.
In particolare, Don Pero è stato un featuring fatto con tanto piacere. Lui era gasatissimo dalla mia proposta, quindi tanto rispetto per lui. Non mi ha fatto aspettare, è stato super professionale. Bravo Don Pero.
Il tuo è un disco identitario, ma anche profondamente umano. C’è rabbia, certo, ma anche vulnerabilità, fatica, solitudine. Che ruolo ha oggi la salute mentale per un artista come te, e quanto ti ha cambiato parlarne nei tuoi testi?
Sì, diciamo che in ogni mio disco c’è sempre stata una grandissima parte autobiografica. Io, purtroppo, sai… venendo da una famiglia molto problematica — e quando dico “molto problematica” è esattamente quello che ho detto — ho comunque sviluppato varie cose durante la crescita che mi hanno influenzato molto. Non nella crescita, magari… io quello che le persone vedono come amore regolare lo vedo in maniera molto strana, ambigua. A volte non riesco a trovare un equilibrio.
Quello che penso io, personalmente, è che l’importante è che tu non vada a dare fastidio alla vita delle altre persone. Poi, per il resto, non posso reputarmi sicuramente una persona perfetta. Ma almeno credo che nel mio regolamento, sia a livello mentale che di anima, ci sia proprio: non dare fastidio al prossimo. Per il resto ho molto da lavorare. Chissà per quanto tempo.
Dalla tecnica del freestyle ai palchi, dai graffiti alle produzioni più curate: sei partito dalla strada e sei rimasto fedele alla tua traiettoria. Guardando indietro, a tutto questo percorso, cosa diresti al te stesso quindicenne che sognava di farcela da Catania, senza scappare?
“Sei bravissimo”; “Fai bene a ragionare con la tua testa”: “Fai bene a credere nei tuoi valori”; “Fai bene ad avere la tua mentalità”. Continua così, perché il fatto di non omologarsi mai a nessuno ti premierà in futuro, e saranno premi molto più importanti di tutto il denaro che ti fanno vedere in tv o nei social.
Un artista, al giorno d’oggi, può considerarsi tale senza fare live?
È una domanda molto interessante. Credo di sì, anche se va contro la mia idea, credo che si possa essere un artista anche senza il fattore live. Non saprei, magari esiste un genio che in studio fa dei capolavori assurdi e non vuole minimamente stare sul palco e cantare dal vivo. È una domanda un po’ strana, ma complimenti: molto bella e interessante.
Domanda extramusicale : quale è il più grande male della società odierna?
Credo che il più grande male della società odierna sia arrivare a tutti i costi a quell’immaginario fatto di successo, di ricchezza, dove appunto si mette al primo posto un traguardo, piuttosto che poi i valori e la quotidianità, le cose belle che una persona può godersi ogni giorno tra quegli amici, la famiglia e i bei momenti. È diventata quasi una tortura, questa corsa all’oro.
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Per concludere questa nostra chiacchierata insieme ti invitiamo a salutare e ringraziare chi vuoi! Alla prossima
Innanzitutto ringrazio voi di Exclusive Magazine, e poi ci tengo tanto a ringraziare la mia squadra: Gianluca, Bozzo, Funkyman, e tutti i fan, tutte le persone vere che hanno capito il mio potenziale e la mia musica. Grazie a tutti.
Intervista a cura di Jean Denis Marchiori