
“Birra Scura” è un brano denso di immagini visive e introspezione emotiva. Qual è stata la scintilla che ha dato origine a questa canzone?
Non c’è stata una sola scintilla, ma piuttosto un fuoco lento, come quelli che si accendono dentro e bruciano senza fare fumo.
È una canzone nata più dal desiderio che dalla realtà. Perché a volte l’amore non è un fatto, ma è un’assenza. È qualcosa che si muove dentro, anche se fuori non succede nulla.
Non sempre bisogna possedere per sentire. A volte basta immaginare, e già ti manca.
“Birra Scura” è quel tipo di desiderio: viscerale, quasi fisico, ma senza garanzie. È l’urgenza di sfiorare, anche solo con le parole, ciò che forse non si toccherà mai.
E in fondo è lì che abita la poesia: in quello spazio tra ciò che vorremmo e ciò che resta sospeso.
– Nel testo si percepisce un equilibrio tra sensualità e riflessione esistenziale. Come lavorate insieme alla scrittura per bilanciare questi due aspetti?
Per noi la scrittura è un atto di ascolto, prima che di espressione.
Quando lavoriamo a un brano, non cerchiamo un equilibrio a tavolino ma lo lasciamo nascere da solo.
La sensualità e la riflessione esistenziale non sono due poli opposti: sono lo stesso respiro, ma in momenti diversi.
Nel desiderio c’è sempre una domanda più grande, che non sempre nasce da un vuoto che cerca risposta.
E nella riflessione più nuda c’è quasi sempre un corpo, un odore, un gesto che ritorna.
Scrivere insieme per noi è come mettere in dialogo questi due mondi: uno ti brucia la pelle, l’altro ti sveglia l’anima.
E quando si incontrano in una canzone, nasce qualcosa che non è più solo nostro.
-Il verso “C’è chi vive solo per vivere / io che non ho paura di sparire” è particolarmente potente. Rappresenta un vostro sentire personale o più un personaggio narrativo?
Quel verso nasce da dentro, e anche se suona come la voce di un personaggio, in realtà ci somiglia molto. È una confessione.
Viviamo in un tempo in cui si ha paura di sparire: dai radar, dalle storie degli altri, perfino da se stessi.
Però si sottovaluta un aspetto, che a volte sparire è l’unico modo per ritrovarsi.
‘Io che non ho paura di sparire’ significa accettare che per vivere non tutto debba esistere sotto i riflettori.
C’è più verità nel silenzio che in cento parole dette per esserci.
È un rifiuto dell’apparenza, della sopravvivenza passiva.
E sì, in questo senso ci rappresenta.
Scriviamo per restare, ma anche per sparire un po’. Lasciando qualcosa che parla al posto nostro.”
– Avete definito la vostra musica come un mix tra melodie accattivanti e testi profondi. Quanto è importante per voi che un brano “dica qualcosa”, oltre a suonare bene?
Forse già lo si capisce dal nostro nome “Concetti”, perché proprio i concetti per noi sono importanti. Suonare bene è un dovere, dire qualcosa è un’urgenza.
La melodia è la pelle della canzone, ciò che ti invita a toccarla, ma sono le parole a farle scorrere il sangue dentro. Noi non scriviamo solo per intrattenere: scriviamo per disturbare i silenzi, per dare forma a un desiderio, a un dubbio, a una verità anche se scomoda.
In Birra scura, ad esempio, non c’è niente di addomesticato. È un brano che si denuda senza vergogna, che si lascia guardare anche quando è stanco, disfatto, vero. La musica ti prende per mano, ma poi sono i versi che ti portano in un luogo dove, se hai il coraggio, ti puoi perdere.
Scrivere una canzone senza dire niente è come bere una birra analcolica, ti bagna le labbra ma non ti scalda dentro.
– Dopo il successo di “La guerra dell’acqua” e l’esperienza al Premio De André, quanto è cambiato il vostro approccio alla musica?
Dopo La guerra dell’acqua e il Premio De André non è cambiato il nostro modo di fare musica. Abbiamo sempre scritto e suonato per esistere, adesso suoniamo anche per resistere. Resistere al compromesso facile, alla frase scritta per piacere invece che per necessità.
Quando qualcuno ti presta attenzione, devi chiederti se hai davvero qualcosa da dire, e se sei disposto a pagarne il prezzo. Il successo non ti dà una voce: ti chiede di usarla con più responsabilità.
De André ci ha insegnato che la musica può essere un coltello che incide l’anima, ma anche una carezza che la fascia. Essere stati tra i semifinalisti del Premio De Andrè non è stato un traguardo, ma un promemoria: scrivi solo se non puoi farne a meno e così è stato per Birra scura.
“Birra Scura” ha un’atmosfera quasi cinematografica. Pensate spesso per immagini quando componete o scrivete i testi?
Scrivere, per noi, è stato come rincorrere il ricordo di una notte che forse non c’è mai stata… ma che abbiamo desiderato così tanto da crederla vera.
Birra Scura è quel tipo di notte: fatta di sospiri non detti, di corpi sfiorati più con la mente che con le mani, di silenzi più densi di qualsiasi parola. Non è cronaca, è allucinazione. È un’immagine che ti si attacca addosso e non se ne va, nemmeno al mattino.
Pensiamo per immagini, sì. Ma non sono immagini nitide, poi l’ascoltatore decide cosa mettere a fuoco. Sono fotografie, che ti fanno male perché non sai se ritraggono un ricordo o un rimpianto.
Le parole non le scegliamo, cerchiamo di dare forma a ciò che non ha mai avuto una forma.
È una canzone che non descrive, ma ferisce dolcemente. Come certi sogni che vorresti non fossero finiti… solo perché non sono mai cominciati davvero.
– Il progetto live che porterete nei club del Lazio nel 2025 sembra promettente. Che tipo di esperienza volete offrire al pubblico nei vostri concerti?
Non vogliamo intrattenere, vogliamo coinvolgere, smuovere, far sentire al pubblico che sta accadendo qualcosa che non si può replicare né su Spotify né su YouTube: un momento vivo, fragile, irripetibile.
I nostri concerti sono pensati come confessionali laici, dove ognuno può riconoscersi in un verso.
Vogliamo che la gente esca diversa da come è entrata, anche solo per un dettaglio, un brivido che riaffiora sotto pelle.
Sul palco non indossiamo maschere, ci presentiamo “nudi”, con le nostre canzoni come cicatrici cantate. E se qualcuno là sotto si riconosce in quelle cicatrici… allora il concerto non è stato solo musica. È stato un incontro.
– Siete un trio con ruoli ben distinti ma complementari: come funziona il vostro processo creativo collettivo?
Siamo tre “voci” diverse che si mescolano.
C’è chi scrive le parole, chi dà loro una melodia e poi c’è chi ascolta tutto dall’alto e costruisce l’arrangiamento come un vestito su misura, cucito addosso al senso.
Il nostro processo creativo è una forma di fiducia. Non ci ostacoliamo, non ci correggiamo per principio: ci ascoltiamo. Cerchiamo sempre di lasciare spazio all’altro, anche quando le idee si urtano. Perché è proprio lì, in quello scontro dolce tra differenze, che spesso nasce l’anima vera di una canzone.
Restiamo fedeli a noi stessi, certo. Ma siamo anche disposti a contaminarci. A mischiare, come in Birra Scura, tre prospettive, tre sensibilità, in un’unica stanza sonora. E quando tutto si allinea, succede qualcosa che nessuno dei tre avrebbe potuto creare da solo.
– L’indie pop italiano è in continua evoluzione. Dove sentite di collocarvi in questo panorama? E quali artisti vi ispirano maggiormente?
Non sappiamo dove collocarci, e a dire il vero non ci interessa saperlo.
Le etichette ci stanno strette: servono ai cataloghi, non alle canzoni. Noi non scriviamo per appartenere a una scena, ma per esistere dentro una necessità.
Se una melodia ci salva, se un testo ci espone, allora vale. Che sia indie pop, cantautorato o altro, lasciamo che siano gli altri a deciderlo.
Ci ispiriamo a chi ha qualcosa da dire, anche solo un sussurro, purché sia autentico.
I nostri riferimenti non hanno tempo né moda: De André, che ha dato voce agli ultimi; Dalla, che vedeva l’invisibile; Bersani, che accarezza il dolore con parole.
Ci ispiriamo a chi resta, non a chi funziona. E se anche noi, un giorno, potessimo scrivere una sola canzone che sopravviva alla stagione… allora forse il posto dove collocarci l’avrà trovato chi ci ascolta. Non noi.
– Guardando al futuro: cosa possiamo aspettarci dai Concetti nei prossimi mesi dopo “Birra Scura”? Un album? Collaborazioni? Nuove sperimentazioni?
Nei prossimi mesi potete aspettarvi altri brani, sicuramente.
Non per dovere, ma perché le parole continuano a bussare e quando bussano, o le scrivi o ti ammali.
Abbiamo ancora molto da dire, e stiamo cercando di farlo nel modo più vero possibile, senza filtri.
Stiamo lavorando parecchio in studio, e l’incontro con Caronte Music è stato come trovare una barca in mezzo a un fiume in piena: adesso possiamo remare, sì, ma senza dimenticare la corrente.
Siamo aperti a tutto: collaborazioni, sperimentazioni, deviazioni.
L’unica cosa che non vogliamo perdere è l’urgenza. Quell’ impulso che ci spinge a scrivere anche quando il mondo sembra troppo distratto per ascoltare.
Birra Scura è solo un sorso. Il resto lo stiamo ancora versando.