
C’è chi scrive canzoni, chi pubblica libri, chi sale su un palco. E poi c’è Gio Evan, che fa tutte queste cose insieme, ma a modo suo. Visionario, delicato e potente, Evan è diventato un punto di riferimento per una generazione che cerca significati nuovi nelle parole antiche, nella lentezza, nella fragilità.
Con il nuovo brano “Turno di notte”, una dedica alla madre e un inno alla luce che resiste nell’ombra, l’artista ci accompagna in un’altra tappa del suo cammino artistico ed emotivo. A breve, sarà anche in scena con “L’affine del mondo”, il suo nuovo tour teatrale, e ad aprile pubblicherà il suo romanzo “Le chiamava persone medicina”, un’iniziazione narrativa tra montagna, poesia e legami ancestrali.
Abbiamo incontrato Gio Evan per parlare di notte, memoria, ascolto e futuro. Quello del mondo e quello dell’anima.
1. “Turno di notte” è una canzone intima, quasi sussurrata, che affronta la perdita, la memoria e il tempo. Cosa significa per te scrivere una canzone così personale e poi condividerla con il mondo? È più un atto di coraggio o di liberazione?
Scrivere una canzone come Turno di notte è stato un atto essenziale nel mio percorso, perché rappresenta immagini familiari effimere, ma fondamentali. È come osservare un albero genealogico: bisogna considerarlo, valutarlo, constatare se ha bisogno di bere, se deve essere potato. Credo sia importante guardare alla propria genealogia, alla propria famiglia, alla propria eredità biologica, e chiedersi: come sta? Cosa sta facendo? Quanto sta cambiando?
Dato che tutto è in continua trasformazione, per me era fondamentale saldare certi momenti e custodirli. Ho sentito la necessità di farlo perché nella mia famiglia, sia quella biologica che quella interiore, ci sono stati grandi cambiamenti che meritavano di essere raccontati attraverso l’arte.
2. In un passaggio parli di “perdite imperdibili”. È un concetto profondo e paradossale. Quanto è importante, secondo te, imparare a perdere per imparare a vivere davvero?
Imparare a perdere… In realtà, il verbo ‘perdere’ fa già parte del nostro quotidiano. Ogni giorno perdiamo qualcosa, che sia una cosa piccola, grande o immensa. Non si tratta tanto di imparare a perdere, quanto di iniziare ad accogliere lo smarrimento, la dissolvenza, l’invisibile, la perdita stessa. Il grande trasferimento, l’addio… sono tutte sfaccettature dello stesso verbo.
Accettare la perdita è essenziale per vivere una vita davvero sana. Solo quando impariamo a farlo possiamo arrivare alla vera ‘presa’ – la presa di coscienza. È in quel momento che il verbo ‘prendere’ e il verbo ‘perdere’ si incontrano, dando senso al nostro cammino.
3. Nel video di “Turno di notte” c’è un personaggio che costruisce giochi per la strada, usando scarti e materiali recuperati. Un gesto poetico e sociale insieme. Quanto credi che l’arte debba oggi essere anche un gesto politico, seppure nella sua dolcezza?
Qualsiasi cosa facciamo, ahimè, è politica. Quando andiamo al supermercato e scegliamo un prodotto al posto di un altro, stiamo affossando un movimento e valorizzandone un altro. Ogni gesto è politica.
L’arte, avendo una cassa di risonanza più ampia, ha un impatto ancora maggiore. La musica lo è ancora di più, perché prende le arie, è trasparente, si infiltra nelle interferenze, nelle vibrazioni. Quindi sì, è molto politica.
Nel video di Turno di Notte faccio proprio un piccolo esempio della politica che piace a me: quella del prendersi cura dell’intorno, dell’accanto, del gesto piccolo, capace però di creare una rete di compagnia e collettivo.
4. Con “L’affine del mondo” porti a teatro una riflessione sulla connessione tra esseri umani, mescolando poesia, fisica quantistica e comicità. Sembra quasi un atto d’amore verso chi non si sente “in linea” con il mondo. A chi dedichi questo spettacolo?
L’affine del mondo, anche se sembra un gioco di parole con la parola fine, in realtà parla dell’inizio del mondo. Perché con quale strumento si può iniziare un mondo? Come nasce un mondo?
Da sempre, tutto inizia con l’accordo tra due persone. Se una persona va d’accordo con un’altra, e poi con un’altra ancora, si crea un nucleo che può diventare il mondo. E questo accordo è l’affinità.
L’affinità è il verbo affinire. A me piace dirlo così: affinire. Significa iniziare a creare relazioni, costruire una rete tra le persone, creare compatibilità. Significa anche chiedere all’altro: ‘Dove posso compatibilizzarmi con te?’.
Bisogna inventare parole nuove, anche se non esistono, perché abbiamo bisogno di concetti nuovi. Il nuovo può nascere solo attraverso l’inesistente. Dobbiamo trovare il coraggio di esistere l’inesistente. Abbiamo bisogno di riavviare il mondo.
Quindi, L’affine del mondo è proprio questo: un manuale, un ricettario per attuare una nuova creazione.
5. In “Le chiamava persone medicina”, racconti il legame tra un bambino ipersensibile e una nonna che parla il linguaggio della natura. È un romanzo di formazione, ma anche di guarigione. È la montagna, oggi, la tua vera casa interiore?
“Le chiamava Persone Medicina” è un romanzo a tre voci: la montagna, la nonna e il nipote.
La montagna ha sempre fatto parte della mia vita, non solo come luogo fisico in cui abitare, ma come simbolo dell’antichità e della memoria. È una testimone silenziosa che conserva i passati, che ha protetto le persone durante guerre feroci e che ha disegnato confini naturali senza bisogno dell’uomo e del suo righello.
La montagna contiene la medicina, anzi, le medicine: le piante, i fiumi, la saggezza della terra. In questo romanzo c’è un grande legame con la montagna, e c’è una nonna, una custode, che attraverso la sua esperienza trasmette al nipote un’eredità invisibile.
È un viaggio fatto di insegnamenti, dettagli, sfumature. Ma soprattutto, è un viaggio di riconoscenza. Perché la montagna, quando iniziamo davvero a frequentarla, ci insegna prima di tutto questo: la riconoscenza. Che è sia conoscersi di nuovo, sia gratitudine profonda.
6. Dalla strada ai palchi internazionali, dai libri alla musica, il tuo percorso è sempre stato trasversale. Come riesci a mantenere l’autenticità tra tutte queste forme espressive senza snaturare la tua voce?
Non mi snaturo semplicemente perché non ho mai abbandonato la strada, le montagne. Vivo ancora lì, continuo a fare i miei viaggi a moneta zero, e da più di 15 anni frequento l’Amazzonia.
È impossibile snaturarsi quando si è immersi nella natura.
Dal Dharma, come diceva Buddha, ci si allontana solo quando si smette di frequentarlo. E io non smetto mai di frequentare tutte le parti che ero.
7. In un’epoca in cui si corre per rimanere visibili, tu sembri suggerire il contrario: rallentare, ascoltare, sentire. Che ruolo ha il silenzio nella tua scrittura e nel tuo modo di vivere l’arte?
Io, da autore, da scrittore, l’unico vero consiglio che do alle persone che mi si incuriosiscono davanti è: non scrivere mai se prima non hai fatto almeno un’ora di silenzio.
Altrimenti, non scrivi cose tue. Scrivi ciò che hai sentito, i rimproveri ricevuti, i litigi, gli amori, i baci che hai dato poco fa. C’è bisogno di una tabula rasa, di almeno un’ora di silenzio prima di iniziare a scrivere.
La cosa bellina del silenzio è che rende sempre l’uomo più intelligente, anche più di quanto sia in realtà.
Vieni dal silenzio e sarai un autore più sensibile, più attento. Vieni dal caos e sarai solo un ripetitore. E poi, diciamolo, sembri anche più intelligente se scrivi dopo un po’ di silenzio. È una grande arma.
8. Se potessi lasciare un verso, una sola frase, scritta sul muro del tempo per chi verrà dopo di noi… quale sarebbe?
Una frase, forse una delle cose che dico spesso a mio figlio, che adesso lo fa in automatico, è prima di attraversare guarda a destra, a sinistra e in alto, per vedere di cosa è fatto ancora il movimento celeste. Però oggi mi viene tanto da dire, non da consigliare, ma da dire ad alta voce di fronte agli altri è: prenditi cura del vuoto, perché c’è tanta importanza dentro il vuoto, uno spazio bianco dove tutto è possibile. Abbiamo bisogno del tutto è possibile
Intervista a cura di Eva Berretta!